Elisa Barchi: l'arte della meraviglia

Intervistata dai microfoni della Redazione Sigonio, Elisa Barchi svela un mondo fatto di arte, sensibilità e bellezza.

Barchi

Per quale motivo ha scelto di intraprendere il percorso di studi teologico oltre a quello artistico? 

«Dopo aver frequentato il liceo scientifico, ho maturato la consapevolezza che le discipline umanistiche avrebbero fatto maggiormente al caso mio. Ho scelto il percorso artistico e, nonostante le difficoltà incontrate, fin da subito ho capito che quella sarebbe stata la mia strada. 

Alla laurea ho realizzato una tesi sulle maestà, che soprattutto nell'area toscana sono fatte di marmo dalle botteghe Carraresi, perciò sono particolarmente pregiate e di elevato valore artistico. La mia professoressa però spesso mi modificava la parola "fede" con la parola "devozione", come se volesse ridurre in qualche modo la rappresentazione sacra sparsa sul territorio ad una sorta di pratica di vita. Per me invece quelle opere avevano un valore spirituale profondo: delle persone avevano deciso di collocare nei loro spazi di vita un'immagine che ricorda la trascendenza, la presenza di Dio nella vita.

Vorrei citare un’epigrafe, perché sotto le immagini spesso c'erano delle frasi e delle preghiere, che mi colpì tantissimo: siamo nella zona della Lunigiana, vicino a Fosdinovo, dove sotto ad un'immagine che raffigurava dei santi, era incisa questa frase in latino che, tradotto, diceva: “con un piede cammina per la strada, con l'altro sali al cielo”. Questo per me è vitale.

Allora mi sono detta che se avessi voluto inserire la parola “fede” in una tesi di storia dell’arte, forse prendendo una laurea in teologia, avrei avuto le due abilitazioni e me lo sarei potuta permettere!» 

Che ruolo ha l’arte nella sua vita e che cosa le ha insegnato?

«Mi permetterei di citare la frase di Dostoevskij dell'Idiota, in cui il principe Myskin dice che la bellezza salverà il mondo. La bellezza in realtà è quello sguardo profondo che ci fa cogliere in tutto ciò che ci circonda una straordinarietà, che possiamo chiamare bontà, verità o altro. Una volta individuata quella, è lì la vera bellezza, la via della nostra vita. L’arte mi aiuta a ritagliare uno spazio per questo». 

 

Lei si rivede o si identifica in un’opera d’arte?

«A volte mi viene da pensare che noi siamo come nelle mani di un vasaio che plasma la terracotta. Quindi è bello pensare di poter fare della propria vita un'opera d'arte in costante miglioramento; noi siamo belli perché imperfetti e poiché siamo in grado di perfezionarci.

C’è stato un tempo della mia vita in cui ho amato l'arte di Caravaggio, quella bellezza che esce dal buio, luminosa e perfetta, resa tale anche nelle sue “brutture”. Oggi invece, amo l'arte a partire da Van Gogh, dove siamo raffigurati imperfetti. È in queste opere che percepisco la vera bellezza». 

 

Se fosse un’ artista e dovesse realizzare un'opera, questa, cosa rappresenterebbe e quale significato avrebbe?  

«Ricordo un libro con alcuni articoli che uscirono a seguito del terremoto in Emilia del 2012 dal titolo “La fragilità di Dio”, una raccolta eseguita da Brunetto Salvarani, uno scrittore carpigiano che si occupa di dialogo interreligioso.

C’era un passaggio nel libro che trattava delle ferite come spazio per entrare dentro, per creare un mondo che va al di là del nostro materiale e concreto, ma che rimane comunque parte di esso. È per questo motivo che i tagli di Fontana e i suoi concetti spaziali, per me, sono illuminanti».

 

La conosciamo ormai da due anni e il sentimento che la caratterizza maggiormente è la meraviglia, il suo modo di amare la vita le persone, in particolare gli alunni. Questa sua qualità le è stata d’aiuto nei momenti bui della sua vita?

«Sono una persona che nella sua vita, e forse ancora oggi, ha lottato contro il buio e la depressione. Credo che questo faccia parte della vita delle persone che sperimentano la sensibilità nel profondo. Tuttavia anche nei momenti duri che ci sono stati, la speranza non mi ha mai abbandonata. 

Credo di dover essere grata ai miei genitori che mi hanno educata alla fede e questa ti porta a sperare che il bene vincerà, ma non solo: ti porta a guardare gli altri come tuoi fratelli, come spazio di vita, come relazione, come occasione di miglioramento.

Non mi è facile descriverlo a parole, semplicemente lo vivo ed è bello che mi diciate che si veda, per me è vitale».

Se potesse cambiare identità per un giorno chi/che cosa vorrebbe diventare? 

«Un salice piangente. Nel giardino dei miei nonni, che avevano una casa in campagna, accanto alla finestra della cucina c’era un salice che al vento suonava e ballava e io mi incantavo a guardarlo, ricordo ancora il fruscio. Io vorrei essere quello in particolare perché mi ricorda i miei nonni, che non ci sono più, la famiglia della mia mamma e tutte le occasioni in cui ci riunivamo in quella casa. Tutte le volte che vedo un salice piangente, è come se i nonni mi parlassero». 

 

Parlare di arte significa anche parlare di bellezza. Spesso di fronte a un’opera non ci si limita solo a osservare i dettagli più evidenti, ma si nutre il desiderio di andare oltre e scoprire quelli che sono i suoi significati nascosti. Cos'è per lei la bellezza? Sente il bisogno di andare oltre la bellezza esteriore delle cose e di ciò che la circonda? 

«Per me la bellezza non è mai solamente quella esteriore. La bellezza esteriore attira, si pensi anche alle opere d'arte, però l’attrazione non finisce lì: chiama per poi aprire ulteriore messaggio, una bellezza più piena. Quindi: viva la bellezza esteriore, in tutte le sue multiformi sfaccettature e basta con la dittatura di uno standard unico di bellezza. La bellezza esteriore attira lo sguardo al fine di far sperimentare la pienezza del suo significato più profondo, di quella bellezza che va oltre ciò che vedi». 

 

In quest’epoca si parla molto di disagio giovanile e di soluzioni per porre rimedio a questo fenomeno. Cosa pensa sia utile per “salvare” gli adolescenti e gli esseri umani dall’inquietudine? L’arte può diventare uno strumento terapeutico? 

«In parte l’arte lo è: esistono tantissimi corsi di arte-terapia per aiutare le persone. Ma in realtà l’arte, per come la vivo io, è narrativa: ti fa incontrare le storie delle persone, per poi raccontarle. Quindi per me l’arte è un largo spazio di relazione umana e credo che questa società, un po' egocentrica e narcisista, abbia dimenticato che la vera gioia della vita risalga nella relazione umana, nello scambio, nel prendersi cura l’uno dell'altro.

Tante volte le persone della mia generazione non vogliono dare impegni e pensieri ai ragazzi perché devono divertirsi, devono essere leggeri… Secondo me le occasioni di cura dell'altro, che possono essere volontariato, impegno in famiglia e tanto altro, aprono al vero significato della vita!»

 

Molte persone affermano di non essere strane: semplicemente sostengono scherzosamente di essere nate nel periodo storico sbagliato. 

Lei, in quale movimento artistico si identifica?

«Difficilissimo! Quando ho scelto Conservazione dei Beni Culturali all'università, mi sono dedicata all'area medievale. Il medioevo, infatti, risulta essere anche nell'immaginario comune, il periodo più lontano e sconosciuto, spesso ritenuto oscuro. A me piace molto indagare quello che non ci è noto. Credo quindi che mi identificherei proprio in questa epoca storica».

 

Le è mai capitato di sognare di trovarsi immersa in un mondo totalmente irrazionale, frutto di un enorme mix prodotto dal suo inconscio sulla base di tutte le sue conoscenze artistiche e teologiche? 

«Totalmente. Le due realtà si mischiano sempre. Io non sono capace di produrre, ma sono abilissima nell’immaginare, nel vedere, nel guardare… Spesso e volentieri sono in un mondo che non so se sia vero o immaginario, ma è il mio mondo! Sia che lo abbia vissuto sia che lo abbia immaginato, fa parte della mia vita e ha plasmato la mia persona». 

Redazione Sigonio

Letizia 5ªD

Aurora 5ªD