Beatrice Guerzoni: California girl

Un viaggio nella vita della professoressa di inglese Maria Beatrice Guerzoni, tra scuola, amore e alligatori. 

Secondo lei, la scuola italiana dà la giusta importanza alle esperienze all’estero?

 «Dipende dal tipo di scuola, per esempio gli studenti dei licei linguistici fanno PCTO e altre esperienze all’estero, a differenza vostra che fate queste esperienze nelle scuole primarie, giustamente, perché il vostro indirizzo è diverso. Penso che le scuole linguistiche diano la giusta importanza alle esperienze fuori dall’Italia, ma anche nelle altre scuole sarebbe importante che si prestasse più attenzione all’inglese. Penso che la lingua inglese sia importantissima per il lavoro, per girare il mondo, cosa che accade sempre di più, e per conoscere persone nuove che non parlano la nostra lingua. L’Italiano è poco parlato al di fuori dell’Italia e viene insegnato poco all’estero, quindi per noi italiani è fondamentale saper parlare in inglese per comunicare con il resto del mondo. Concludendo, penso che sarebbe importante fare più esperienze all’estero in tutti i tipi di scuole».

 

La scuola dovrebbe promuovere di più le esperienze all’estero?

«Nella scuola pubblica dovreste essere trattati tutti allo stesso modo, per questo non possiamo pubblicizzare agenzie ed enti privati. Anche se, in realtà, anche quando andate in gita scolastica, si ricorre a enti come le agenzie viaggi, gli hotel, i treni ecc… la differenza è che la gita scolastica è accessibile a molte più persone, rispetto ad una vacanza studio o a un anno scolastico all’estero, quindi sembrerebbe una forma di discriminazione. Sarebbe bello avere dei fondi per finanziare questi viaggi, ma le esperienze all’estero rimangono costose, perciò si riuscirebbero a finanziare solo in piccola parte. Ho sentito che forse i fondi del  PNRR verranno usati, nei prossimi anni, per far accedere gli studenti alla certificazione linguistica europea, questo sarebbe già un passo avanti». 



Perché ha scelto di continuare a vivere in Italia nonostante lei ami gli Stati Uniti?

«Perché la famiglia gioca un ruolo fondamentale in questi casi. Noi italiani siamo molto legati alla famiglia a differenza degli americani che, già a 18 anni o se possono anche prima, se ne vanno di casa. A mio marito non piace molto viaggiare, mentre mia figlia è una viaggiatrice come me e quando viaggio, ora lo faccio con lei. Se fossi da sola vivrei in modo diverso, ma quando ci sono altre persone bisogna anche prendersi cura di loro. In più ho un lavoro qua che mi piace, anche se non escludo, una volta in pensione, di andare a vivere là, almeno per sei mesi l’anno». 

 

Se potesse scegliere un posto dove vivere, quale sarebbe?

«La California è il mio posto del cuore, soprattutto il sud della California».

 

Ritiene che il metodo di insegnamento della lingua inglese sia efficace nel sistema italiano? Se no cosa cambierebbe?

«Se avessimo più ore alla settimana, come fanno al liceo linguistico, sicuramente sarebbe un metodo di insegnamento efficace, negli altri indirizzi ci sono troppe poche ore dedicate alla lingua straniera. Inoltre non sono mai riuscita a fare tutte le ore di lezione previste in un anno, soprattutto a causa di altre attività scolastiche che ci fanno perdere tempo prezioso, ma che sono obbligatorie e comunque utili, vedi conferenze, uscite didattiche, assemblee d'istituto. Prima del covid, la nostra scuola fece uno scambio con una scuola turca e i ragazzi venuti qua facevano 6 ore di inglese alla settimana ed erano molto più preparati dei nostri. Penso che i programmi dovrebbero adattarsi di più ai cambiamenti del mondo, invece adesso sono un po’ inadeguati per tanti aspetti, compresi quelli di lingua straniera».

 

Secondo lei uno studente che esce dalle superiori, è sufficientemente preparato per comunicare in inglese?

 «Secondo me, per essere preparati a parlare in inglese a un ottimo livello, si deve aver fatto altro oltre alla scuola, tipo un'esperienza all’estero o si deve essere particolarmente interessati alla lingua straniera. Se uno studente ha la passione e approfondisce da sé, può farcela, ma non ci si può accontentare solo del lavoro fatto a scuola». 

 

Cosa ne pensa dei percorsi con i madrelingua inglesi?

«L’intervento del madrelingua può essere uno stimolo in più, un nativo che racconta esperienze vissute nel suo paese può essere interessante. Però queste ore con un madrelingua dovrebbero essere oltre quelle di regolare lezione».  

 

Ci racconti della sua prima esperienza all’estero. Cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale? 

«Il primo viaggio all’estero che ho fatto era a Parigi con i miei genitori, quando avevo 14 anni. Ai tempi non si andava all’estero facilmente come adesso. Dal mio primo viaggio ad adesso è cambiato sicuramente il modo di viaggiare. Prima era tutto fatto dall’agenzia viaggi, mentre oggi si può fare tutto online. Anche la società è cambiata, adesso si deve stare più attenti quando si viaggia, anche per il terrorismo, mentre quando ero ragazzina io questo problema non era tanto sentito».

 

E il suo primo viaggio in America?

«Sono andata in America per la prima volta con mio marito, avevo circa 25 anni, è stato un viaggio on the road (su strada) in California. Non so se sia stato questo a farmi innamorare della California o se invece sia stato il clima, i paesaggi e le città. O forse la gente, di vedute così aperte e con un forte senso di libertà. Ero già stata in Inghilterra diverse volte precedentemente, quindi conoscevo già la cultura inglese, ma questo è stato il mio primo viaggio intercontinentale».

 

Qual è l’esperienza più sconvolgente che ha fatto all’estero?

 «Un’esperienza che mi ha tenuto con il fiato sospeso è avvenuta durante un mio viaggio in Messico. Io e mio marito siamo andati in una lancia su un fiume molto profondo tra le gole di un Canyon e c’erano gli alligatori. Quella stessa sera, dopo la bellissima avventura in mezzo alla natura, sono andata a cena e mi è andata di traverso la carne e stavo per morire soffocata ed ero lontana da mia figlia. Queste sono esperienze che, ovviamente, possono capitare ovunque, però è brutto quando succedono lontano da casa, soprattutto in paesi poco avanzati da un punto di vista sanitario. Un’altra avventura a Cuba: ci hanno fatto guidare in autostrada contromano dicendo che lì si poteva fare o quando nella piazza centrale di Marrakech mi hanno messo un pitone enorme sulle spalle per fare la foto… o ancora a San Francisco siamo entrati per sbaglio in una zona molto degradata e pericolosa della città e anche a Buenos Aires!  Questo per dire che il viaggio è proprio bello ed emozionante sempre, perché è un’avventura continua e rimarrà per sempre impressa in noi». 

 

Preferisce Michael o Gabriel ( simboleggiano rispettivamente l’amore passionale e quello intellettuale nel racconto di Joyce)?

«Di impulso mi viene da dire Michael, però va bene quando abbiamo 20 o 30 anni, quando ne abbiamo 50 o 60 è meglio Gabriel. Mi immagino Michael come una persona appassionata, istintiva, che segue l’impulso e che ama ardentemente, ma solo in un determinato momento, mentre su Gabriel si può sempre fare affidamento. Quindi penso che all’inizio si preferisca Michael perché ci stimola di più emotivamente, ma che alla fine si scelga Gabriel, perché ci dà il senso di protezione che desideriamo. Si devono vivere entrambe le esperienze: prima quella delle emozioni e dei sensi, ma credo che nel finale forse sia meglio avere un porto sicuro anche se ci fa stare più coi piedi per terra»