Matteo Rivoli: Dai tesori dell’antichità alla ricchezza della conoscenza

Nonostante sia al Sigonio da poco meno di un anno, Matteo Rivoli è già una certezza per i suoi studenti. Il docente di Italiano, Latino e Storia si racconta tra presente, progetti futuri, Letteratura e Archeologia.

Matteo Rivoli

Qual era il suo sogno nel cassetto quando era bambino? 

«Da piccolo ho iniziato a disegnare precocemente e ancora adesso mi piace farlo. Ricordo una serie di disegni realizzati per compiti scolastici alle elementari. Il tema era: “Come ti vedi da grande?”. Mi ero rappresentato in mezzo a una giungla, insieme agli animali, e avevo scritto: “Da grande farò il naturalista”. Suppongo che a quell’età intendessi uno studioso di scienze naturali (ero nella fase in cui guardavo molti documentari, appassionandomi a temi diversi, come già mi era successo, per esempio, con il mondo dei mezzi meccanici e degli aerei). . Insomma, volevo fare il biologo; poi, nel giro di poco, devo aver cambiato idea».  

Quando e come è nata la sua passione per l’archeologia?

«Ci ho riflettuto parecchio nel corso della mia vita. La mia scelta è stata dettata da più fattori. Il primo è dato sicuramente da come sono cresciuto in famiglia: i miei genitori sono sempre stati grandi appassionati dell'antichità, della storia, e io, da piccolo, ero solito guardare documentari e leggere libri sull’Egitto faraonico con mia madre. Crescendo ho alimentato questi interessi in maniera più giocosa. Ho vissuto la mia infanzia tra fine anni ‘90 e inizio anni 2000, periodo in cui cominciavano a circolare i videogiochi: Tomb Raider e Lara Croft era uno dei miei preferiti. 

La svolta decisiva è avvenuta grazie agli studi, in particolare durante le scuole superiori. Ho frequentato il liceo classico, entrando perciò in contatto con discipline come il greco e il latino. È qui che ho capito che quello sarebbe stato l’ambito che avrei voluto approfondire all’università».    

 

Considerato il fatto che spesso gli archeologi trovano reperti o di valore personale o preziosi a livello materiale, c’è un oggetto a cui è particolarmente affezionato o che ritiene la rappresenti, che vorrebbe gli archeologi trovassero tra 2000 anni? 

«Non saprei individuare degli oggetti veramente rappresentativi della mia persona, ma sarei curioso di far trovare agli archeologi del futuro oggetti che, per noi e per la nostra epoca, fanno parte della vita quotidiana. Anche oggetti banali, come un caricabatterie di un cellulare o un paio di auricolari. Perché ho questa “perversa” curiosità? Vorrei vedere come questi verranno interpretati tra 2000 anni, quando tutto il contesto sociale, tecnologico e materiale sarà cambiato. Suppongo che non capirebbero cosa siano realmente, dandone un’interpretazione completamente sbagliata, proprio come noi archeologi di oggi - ne sono convinto - spesso attribuiamo una funzione erronea ad alcuni oggetti di secoli fa. Mi piacerebbe osservare come le persone del futuro ragioneranno a proposito della funzione di un oggetto, vedere quante e quali interpretazioni fuorvianti emergeranno».

E invece, un oggetto che le piacerebbe scoprire e rinvenire?

«Il mio sogno sarebbe quello di trovare in uno scavo una defixio (anche detta tabella defixionis), cioè una defissione. Non vorrei spiegare ai lettori che cos’è: lascio l’opportunità di fare una piccola ricerca,  in modo da dare a quest’intervista anche uno scopo didattico. In generale, si tratta di un oggetto abbastanza raro che ha a che fare con la cultura popolare. Fa parte di quegli oggetti che ci permettono di cogliere degli aspetti  legati alla  superstizione, trasversali a diverse epoche. Le defixiones, nello specifico, sono tipiche dell’età greco-romana e sono interessanti  perché riguardano l’idea del malocchio e della cattiva sorte».

 

Sappiamo che lei è un nuovo arrivato al Sigonio, ma anche nel mondo dell’istruzione e dell’insegnamento. C’è un modello o una persona incontrata durante la sua esperienza ai quali si ispira? 

«Nella mia carriera da studente ho sempre avuto la fortuna di incontrare degli ottimi docenti, che adesso sono diventati figure di riferimento alle quali guardare per provare a fare in modo simile o ugualmente positivo. In particolare, due o tre di questi mi sono rimasti nel cuore ed è a loro che ogni giorno mi ispiro». 

 

Qual è il suo prototipo di professore ideale?  

«Un bravo professore, dal mio punto di vista, dovrebbe essere “severo ma giusto”: rappresentare, quindi, in modo corretto l’autorità che deriva dal ruolo che ricopre rispetto alla classe e, al tempo stesso, essere oggettivo, esercitando la propria professione in maniera non troppo rigida. È importante cercare sempre una mediazione nei confronti di chi si ha davanti. È un modello “platonico” però, che al momento sento di non aver rispettato. Vedremo se andando avanti e facendo più esperienza, ci riuscirò».  

 

Aspetti positivi e negativi dell’essere un insegnante?    

«Tra gli aspetti positivi rientra sicuramente la continua stimolazione, anche intellettuale. Adesso, in parte perché sono nuovo del mestiere, studio quasi di più rispetto a quando ero all’università. Un conto è imparare le cose per sé stessi; diverso è doverle imparare per poi spiegarle a qualcun altro. Mi piace il fatto che sia un lavoro che aiuta a rimanere giovani intellettualmente: è un esercizio continuo a livello mentale. 

Il rovescio della medaglia è la fatica. Si tratta di un lavoro logorante dal punto di vista sia fisico che mentale, perché implica il doversi sempre interfacciare con altre venti persone, ognuna delle quali ha i suoi problemi, le proprie esigenze e necessità. Il docente in genere è uno, quindi “subiscea volte questa pluralità di coscienze. È un sacrificio però, che vale la pena compiere. Penso che insegnare sia uno dei mestieri più utili al mondo».

Lei, invece, che alunno e studente era?

«Mi definirei un alunno nella media e piuttosto standard. Sono sempre stato molto rispettoso, ligio al dovere e alle regole scolastiche. Ero discretamente bravo, mi impegnavo molto ed ottenevo anche buoni risultati.  

Se dovessi tornare indietro però, consiglierei al me stesso di qualche anno fa, di prendere la scuola meno rigidamente e di dedicarsi magari anche ad altre attività». 

 

Qual era la sua materia preferita?

«Il greco e il latino. Quando ho iniziato a studiare queste materie, al liceo classico, mi sembravano nuove e persino strane. Ho iniziato però fin da subito ad amarle e forse anche di più rispetto alla storia in sé. Con la storia infatti sono molto selettivo, prediligo determinati periodi piuttosto che altri. Faccio fatica ad approcciare il Medioevo o, ancora di più, l’età moderna; per mia attitudine personale preferisco l’età greco-romana. Non è un caso, infatti, che io abbia scelto di specializzarmi proprio in archeologia classica».  

 

Osservando e conoscendo i suoi allievi, le capita di rivedere sé stesso in qualcuno di loro?

«Sì, mi capita. Siamo tutti diversi e, di tanto in tanto, penso sia naturale trovare un alunno che ti ricorda il te stesso di qualche anno prima o in cui rivedi certe propensioni o interessi che te lo rendono immediatamente e istintivamente più affine. Ovviamente, questo non significa fare preferenze e favoritismi». 

Quali sono i valori che vuole trasmettere ai suoi studenti?   

«Sicuramente la passione, l’amore per lo studio a prescindere da ciò che si studia. Ogni studente dovrebbe ricordare il motivo per cui ogni giorno va a scuola, trovare uno scopo o un interesse valido al fine di rendere l’esperienza scolastica più piacevole. Ho l’impressione, a volte, che l’essere bombardati e tempestati da una serie di materie diverse e progetti faccia chiedere loro: “Perché sto facendo questa cosa?”. 

Spesso mi capita, inoltre, di vedere i miei alunni molto ansiosi. Mi piacerebbe trasmettere un approccio più tranquillo alla scuola, incentrato  sulla responsabilità personale, che vuol dire avere la serena coscienza di essere padroni del proprio tempo e dei propri risultati e, di conseguenza, accettare e affrontare serenamente anche eventuali fallimenti, come una cattiva prestazione o un brutto voto». 

 

Una frase della letteratura italiana e latina che le sta particolarmente a cuore?

«Per quanto riguarda la letteratura italiana, cito una frase tratta da una tragedia di D’annunzio, che è “Arma la prora e salpa verso il mondo”, utilizzata nel corso della storia anche con accezione negativa e divenuta, poi, il motto degli irredentisti. È la frase che io e i miei compagni avevamo fatto stampare sulle magliette per gli ultimi giorni di quinta superiore, come  invito a salpare verso un mondo nuovo, che nel nostro caso era quello dell’università. La associo a un momento positivo della mia vita e della mia esperienza scolastica.  

Una frase della letteratura latina che mi è sempre piaciuta è, invece, tratta da Cicerone: “Epistula non erubescit ”, che vuol dire “La lettera scritta non arrossisce”. Attraverso lo scritto non si riescono a manifestare le emozioni, a differenza di quando c’è un dialogo diretto. Trovo che sia una citazione molto attuale, in un’epoca in cui, anche a causa dell'uso di nuove tecnologie e di modalità di comunicazione a distanza, si perde l’emotività. Non si prova più vergogna: molti, infatti, si sentono autorizzati, ad esempio sui social media, a lasciarsi andare agli insulti e a dire cose che non avrebbero il coraggio di dire dal vivo.  

Da un testo scritto, inoltre, si fa fatica a capire il vero umore di una persona e, spesso, si finisce per interpretarlo in modi diversi». 

 

Come si vede tra dieci anni? 

«Non ne ho idea. Questa domanda è per me sempre un grande punto interrogativo. Solitamente, infatti, non riesco a programmare neanche una settimana per l’altra. Vediamo cosa succederà tra dieci anni, vi farò sapere». 

 

Se potesse cambiare Paese in cui vivere, dove andrebbe?

«In Italia sono sempre stato molto bene. Il nostro, nonostante i suoi innumerevoli difetti, è un buon Paese in cui vivere, per questioni climatiche, ambientali e culturali. Possiede inoltre un’eccellente tradizione culinaria, aspetto da non sottovalutare e di cui ci si rende conto soprattutto quando si mette piede fuori dai confini nazionali. A volte, mi piacerebbe essere più intraprendente. Mi rendo conto infatti di essere, per vicende personali, sempre stato molto ancorato al territorio e legato alla mia famiglia. Mi piace viaggiare, l’ho fatto e continuerò a farlo, ma non credo che mi trasferirei stabilmente in un altro Paese». 

 

C’è una cultura in particolare che la  incuriosisce o la affascina e con la quale vorrebbe entrare in contatto?

«Probabilmente è un cliché,ma vorrei conoscere e scoprire meglio le culture orientali e in particolare quella giapponese e cinese. Sono civiltà con una storia antica che mi piacerebbe approfondire. Anche le culture mediterranee come ad esempio quella, greca, albanese e spagnola mi affascinano molto. Questi sono i due poli, dal mio punto di vista, più interessanti». 

 

Un pensiero che le provoca dolore e la fa stare male?

«In ambito lavorativo, mi ritengo insoddisfatto quando mi accorgo di non riuscire a trasmettere un concetto o un contenuto nel modo che vorrei. Provo dispiacere nel percepire un’incomprensione da parte di chi mi ascolta. A volte, anche vedere le nuove generazioni perse, senza punti di riferimento culturali, ideologici o politici saldi, mi intristisce. Non è colpa loro. La responsabilità è delle generazioni passate e del mondo precedente, che forse non sono stati in grado di sistemare e definire le cose in modo chiaro, non fornendo, per di più, degli appigli a cui potersi aggrappare».  

 

Al contrario, cosa la rende felice?

«Sapere di avere al mio fianco, in qualsiasi momento, qualcuno su cui contare. Penso che per me, la massima fonte di felicità sia sempre stata l’amicizia. Al liceo, ho avuto la fortuna di incontrare quelli che poi sono diventati i miei compagni per la vita. Non dei semplici amici ma dei fratelli e delle sorelle che considero parti di una grande famiglia, quei fratelli e quelle sorelle che non ho mai avuto, essendo figlio unico. Nel corso del tempo tante cose possono cambiare, credo però che un’amicizia vera e sincera, una volta assodata, sia destinata a durare in eterno». 

Oggi, invece, ha un desiderio che vorrebbe si realizzasse?    

«Devo essere sincero? Desidero non dover fare l’ultima ora. La quinta ora del sabato è sempre un dramma, sia per me che per gli studenti e oggi, in particolare, vorrei abolirla». 

Redazione Sigonio

Aurora 5ªD

Letizia 5ªD